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Appunti su giornalismo, diritti e crowdsourcing (passando per Huffington)


Sono sempre più convinto che il giornalismo non morirà. Dopotutto, una società che fonda i suoi rapporti sulla produzione e sullo scambio incessante di merci informative non può, a un certo punto del suo sviluppo, ‘staccare la spina’ e rinunciare a un tassello importantissimo della sua stessa struttura. In un momento storico e tecnologico come quello che stiamo vivendo, sarebbe come rinunciare all’ossigeno.

Sono però altrettanto realista. Quindi ribadisco che, se a morire non sarà il giornalismo, fine ben diversa faranno i giornalisti, Anzi, guardando in faccia la realtà, a essere caduto nella peggiore crisi della sua storia è proprio quel modello di produzione e confezionamento della notizia che prevede il giornalista come soggetto economicamente e sindacalmente riconosciuto e figura centrale nella condivisione delle informazioni destinate a diventare merce-notizia.

Alcuni grandi giornalisti lo dicono da tempo, al riparo dai riflettori, e c’è chi giura di aver sentito un vicedirettore dire, all’ombra di Via Solferino, che i giornalisti sono cosa morta. Questo accadeva sette-otto anni fa, quindi ben prima del boom della Rete di massa, del Social Networking e di tutti i fenomeni che hanno rappresentato un enorme volano della condivisione di informazioni ed esperienze.

Ma voglio procedere con ordine. Il primo punto che poche volte viene affrontato nelle discussioni relative a questo tema è il ruolo di una testata all’interno di un ecosistema mediatico, poniamo quello italiano. Lasciando da parte le molte storture dello scenario, proprietà incrociate ed editori di ventura (il discorso ci porterebbe lontano), possiamo ben dire che – fatta eccezione per pochi, pochissimi casi – una testata è sempre più percepita dai soggetti in gioco (quindi dall’editore al lettore) come bocca di fuoco di interessi diversi rispetto al semplice “fare informazione”.
Chiunque si sia impratichito di giornalismo per almeno qualche anno ha sentito, almeno una volta, un direttore o un caporedattore definire importante un articolo più per il fatto di essere finito nella rassegna stampa giusta (quella della concorrenza, quella di un determinato consiglio di amministrazione, quella di un’azienda inserzionista) che per il fatto di determinare in sé, solo per il fatto di diventare materiale pubblico, un servizio al lettore o alla comunità.
I lettori, aizzati dai soliti paladini dell’informazione anti-casta, hanno capito questo gioco da molto tempo. Per questo e per altri motivi, hanno finito col disaffezionarsi alla notizia, che è il bene di cui vive il giornalismo.

Di fronte a questo mutamento di paradigma, di fronte a una rivoluzione tecnologica che ha cambiato radicalmente i rapporti di produzione e di consumo della notizia, il mestiere non ha saputo evolversi, se non esteriormente. Oggi è possibile leggere i giornali su iPad, ad esempio, ma la notizia viene scritta, con qualche leggera modifica dovuta allo stile e alle battute, seguendo le stesse regole di dieci, venti anni fa, spesso senza considerare che (almeno per quanto riguarda l’online), il lettore si è evoluto e pretende un nuovo tipo di rapporto con chi gli fornisce un bene per cui egli è disposto a spendere.
Non è un caso, al netto della qualità dei contenuti, che una delle iniziative editoriali nazionali di maggior successo sia Il Fatto Quotidiano, che ha costruito una buona presenza online e sulle reti sociali e, in chiave anti-sistema (dell’informazione), ha sempre sottolineato la sua indipendenza dai finanziamenti pubblici.

Ora, resto convinto che il giornalismo non morirà mai. I giornalisti faranno un’altra fine. La stanno già facendo, è inutile nascondersi dietro all’evidenza. E lo scenario futuro che si sta prospettando davanti ai nostri occhi non è dei più rassicuranti.

Il valore economico di una notizia, che è ciò che il giornalista “vende” al proprio editore, si sta spostando sempre più verso lo zero, complice la crisi e una serie di meccanismi economici e psicologici che stanno trasformando il prodotto informativo in “commodity”. A complicare lo scenario, penso soprattutto al nostro paese, è il trattamento misero riservato a collaboratori e freelance, sempre meno messi in grado di lavorare per produrre notizie di qualità. E non parlo solo di linea editoriale e di pressioni che un professionista può ricevere negli anni: spesso, di fronte all’evidenza di essere “pagati a pezzo”, conviene puntare sulla notizia sicura per garantirsi l’articolo in pagina piuttosto che su quella che può rivelarsi problematica o che prelude a un iter di discussione piuttosto lungo tra redazione e collaboratore.
Un meccanismo, questo, che ha finito con l’abbassare ulteriormente la qualità media dei contenuti prodotti. Come potete ben capire, arrivati a questo punto la miccia è accesa, e il circolo vizioso innescato.

Vorrei concludere questo mio pensiero, posto che sul tema tornerò altre volte. La notizia di una settimana fa – l’acquisto di Huffington Post da parte di AOL – e le successive polemiche da parte di blogger e giornalisti che da tre anni scrivono gratis e di quei 315 milioni di dollari non hanno visto uno spicciolo, deve far riflettere a proposito dello scenario che si prospetta in tema di “nuova informazione”. Sì perché se da un lato è evidente che i mandanti della morte del giornalista sono i cattivi editori, quelli collusi con altri interessi – ben diversi da quello di fare cronaca – è pur sempre vero che la produzione di contenuti dal basso, finora, si è rivelata un grande affare. Soprattutto per chi gioca al ruolo di “nuovo editore”.
Al netto di altre considerazioni, la vicenda dimostra il parziale fallimento delle politiche di crowdsourcing applicate all’editoria e all’informazione. Soprattutto perché sta facendo passare a tutti i livelli un concetto volontaristico della produzione di informazioni. Non che si tratti di ambiti che non possono coesistere: l’affermarsi del citizen journalism, laddove giornalisti stipendiati e collaboratori semi-professionisti possono convivere, lo dimostra.
Il caso Huffington sottolinea, semmai, la contraddizione che il settore sta vivendo. Schiacciato da un lato dalle politiche e dagli interessi di molti editori, che del professionista farebbero volentieri a meno (costa troppo, dicono), dall’altro la schizofrenia è tale per cui, una volta perso per strada (almeno a livello concettuale) il valore intrinseco di una notizia, il volontario si trova a essere il principale competitor del giornalista. E questo è solo uno degli esempi più eclatanti, perché di colleghi bravi scavalcati da chi non ha altro da chiedere se non pochi Euro a cartella, quindi ben al di sotto dei minimi sindacali, ce ne sono a centinaia.

In questo schema, l’editore è l’unico che trae vantaggio economico dalla produzione di notizie a basso costo. Il giornalista ‘tradizionale’ vede cancellare, passo dopo passo, i suoi diritti e la stessa possibilità di esercitare il suo lavoro. Terzo, si afferma una nuova figura professionale che talvolta, per sua stessa natura, lavora spingendosi oltre i limiti consentiti dalla deontologia professionale, ma soprattutto senza sapere che il suo lavoro – ok, apre a nuovi spazi di libertà personale e professionale – ma sta ledendo i diritti dei colleghi e della categoria, se così vogliamo chiamarla. Insomma, la guerra tra poveri.

Un collaboratore che lavora a 5 Euro a cartella é un danno per i colleghi. Un editore che cerca collaboratori disposti a scrivere gratis o quasi purché gli venga garantito un minimo di visibilità è un danno per il settore. Di tutto questo sono assolutamente convinto, e rifiuto la liturgia che vede nel cosiddetto Web 2.0 il nuovo che avanza a tutti i costi. Lo è, non sempre: bando agli entusiasmi quando non giustificati ed eccessivi. Questa almeno è la mia posizione: la posizione di chi è pronto a riconoscere pari dignità a chi scrive, si chiami giornalista, blogger, web writer o citizen journalist. Purché si giochi ad armi pari: quindi, diritti e doveri per tutti, non il ricatto economico per i giornalisti, e la giungla di regole per tutti gli altri.

L’enorme contraddizione della società italiana, per sua natura rimasta con la mente agli anni ’50, al fordismo e alla produzione materiale, è non saper applicare schemi logici e di buon senso anche alle nuove realtà che vanno via via affermandosi.
Un esempio: guardiamo con giusta e dovuta preoccupazione alla sorte degli operai Fiat, sempre più schiacciati dalla concorrenza dei loro colleghi polacchi, e non ci indigniamo allo stesso modo quando, con la scusa del crowdsourcing o di altri fenomeni internettari, si contribuisce a ridurre a zero il valore economico del lavoro giornalistico e quindi di chi lo esercita. Anzi, molti di noi – anche tra gli addetti ai lavori – si ritrovano a benedire un sistema che, sì, aprirà a nuovi spazi di informazione, ma riscrive pericolosamente verso il basso i diritti di tutti. Perché due pesi e due misure? E a chi conviene questo gioco al massacro?

Il giornalismo non morirà mai, perché la società avrà sempre bisogno di chi produce e smercia informazioni. Probabilmente gli editori si ricicleranno, come a suo tempo ha fatto la stessa Arianna Huffington, e troveranno una nuova veste per la stessa sostanza. Ma con la cosiddetta “forza-lavoro” come la mettiamo? Oppure abbiamo tutti accettato surrettiziamente che il Web è il territorio del ‘free’, e che quindi in questo schema il giornalista di oggi e di domani si trova a essere trasformato in un volontario?

Che il giornalista tradizionale, quello che in Italia é iscritto all’Ordine eccetera eccetera, non sia più centrale nel processo di produzione e confezionamento di informazioni, lo posso capire. Come posso capire che nascano e si affermino nuove figure professionali. Che però tutto ciò si trasformi in un pretesto per fare del giornalista la vittima designata, sacrificata assieme ai diritti sull’altare del processo di innovazione tecnologica, questo non lo accetto. Innovare e togliere diritti a tutti sono due categorie del pensiero molto diverse. Non cediamo alla tentazione di confonderle, in nome dell’esaltazione per il crowdsourcing o dell’ultima moda nata nel Web.

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