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Google, il Web libero, le mezze verità


Google chiede che il web sia trasparente.

Che la Rete, nella sua accezione più democratica e libertaria, sia in pericolo è un dato di fatto. Che a ricordarcelo sia Sergey Brin, imprenditore russo naturalizzato americano e, tra le altre cose, co-fondatore di Google, quantomeno curioso. In una recente intervista al The Guardian, Brin si lascia andare a un’invettiva contro tutte le minacce che oggi mettono a repentaglio una visione orizzontale e aperta della tripla W. La censura dei governi, le lobby che in nome della lotta alla pirateria finiscono per criminalizzare la creatività e la condivisione, e persino i walled garden di Apple e Facebook.

Come dargli torto? La Mela ha creato un sistema hardware-software proprietario tra i più blindati. Facebook mira a replicare “in piccolo” tutte le funzioni del Web, che nella sua ottica è diventato un contenitore di relazioni umane a misura di liceali. Per non dire che, sostiene Brin, l’ombra di Facebook (meglio, dei suoi capitali) aleggia su tutta la Rete e impedisce lo sviluppo di realtà innovative.
Di nuovo, come dargli torto? Un eventuale Google nato nel 2012 non avrebbe il tempo per crescere, svilupparsi, “diventare grande”. Dopo pochi mesi, una volta fattosi notare per le sue caratteristiche innovative e in qualche modo rivoluzionarie, finirebbe per essere acquisito da uno dei giganti del Web, diventarne una divisione interna, una feature tra le mille disponibili all’interno del grande mondo dell’intrattenimento di una Rete che, per certi versi, odora ormai di nazionalpopolare.

Avoler essere pignoli, Brin un torto ce l’ha. Quello di raccontare una versione dei fatti edulcorata, che finisce per essere una mezza verità. Se in Cina è stato possibile censurare la voce dei dissidenti, questo è accaduto anche grazie alla connivenza di parte della Silicon Valley, che quando non ha fornito dati e tecnologie utili a spiare le comunicazioni degli utenti si è piegata ad accettare le usanze locali perché il loro è un mercato promettente in cui conviene esserci. Meglio un piede dentro, insomma, che entrambi fuori: e quindi bene stringere accordi con quelle dittature contro le quali oggi si punta il dito.
Non che nel cosiddetto “mondo civilizzato” si siano usate particolari creanze nei confronti degli utenti. Sono state spiate connessioni wi-fi, utilizzati dati personali (sia pure in forma aggregata) e tracciato ogni aspetto della navigazione in Rete per fornire informazioni e advertising sempre più personalizzato, finendo col minare dall’interno il concetto di privacy, pallido simulacro di quello che dovrebbe essere diritto dei cittadini a veder rispettata la propria vita privata.

Leggendo l’articolo ho subito pensato: “Tutto giusto, ma da che pulpito!”. La motivazione di Brin alle sue condivisibili ma parziali accuse è la seguente: i sistemi recintati, i walled garden, bloccano molte informazioni, tra cui quelle contenute nelle applicazioni. Informazioni che non sono rintracciabili dai crawler del Web, quelli che (guarda caso) Google utilizza per mettere ordine nel mare magnum dei contenuti online. In certi passaggi sembra perfino che la grande minaccia di un Web non più libero è costituita da tutto ciò che ostacola Mountain View nella sua progressiva opera di compenetrazione con Internet.
Un’azione pericolosa, al pari di un Web a misura di liceale o di un sistema informatico-cassaforte. La Rete sta vivendo un periodo di radicali cambiamenti, sulla scorta di un forte cambiamento sociale e antropologico, ma anche delle pressioni esercitate da poteri economici e politici di ogni sorta. C’è un punto di rottura in questo meccanismo, oltre al quale agli internauti di tutto il mondo toccherà scegliere il male minore. Il passo dal “Don’t be evil” al “lesser evil” sarà più breve del previsto. Ma meno indolore.

facebook, social media

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