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Social media, social change


Saranno anni non facili. Anni in cui la parola “crisi” rischierà di diventare parte integrante del nostro vocabolario quotidiano. Voglio dire, la situazione è davanti agli occhi di tutti per cui, non essendo (fortunatamente) un economista, mi astengo dal riassumere i fatti salienti di questi mesi o dal proporre l’ennesima analisi.

Peraltro, non credo minimamente che basti un cambio di governo o un’operazione di make-up alla classe politica o ai conti di uno Stato a farci uscire da questo enorme tunnel.

Non è pessimismo il mio: tutt’altro, sano realismo. Quello stesso realismo che mi consente di guardare con lucidità all’attualità e trarne una qualche interpretazione, per quanto parziale.

Stiamo vivendo un periodo di ricambio. A tutti i livelli. Economico in primis, ma poi sociale, culturale, di rapporti produttivi e soprattutto di relazioni che intercorrono tra le persone. Dalla prospettiva di chi lo vive (“dal di dentro”, si potrebbe dire) questo periodo viene visto come una fase transitoria. “Dal di fuori” (ossia astraendosi un attimo da quella che è la prospettiva ego-centrica dominante), appare chiaro che lo scenario odierno non è quello di un organismo che ha contratto un brutto virus e ora si sta attrezzando per sviluppare gli anticorpi. È molto di più: niente di mortale, ben inteso. Ma, allo stesso tempo, niente di curabile se non si formula una nuova diagnosi e non si procede alle relative cure. E per una nuova diagnosi ci vuole un altro dottore.

La mia impressione è che, con il medico che hanno scelto, non andremo molto lontano. Buona parte di chi oggi detiene le leve del potere fa parte di quella generazione che, dal secondo Dopoguerra a oggi, è stata parte attiva e ingranaggio fondamentale per costruire le architravi della società che noi tutti oggi sperimentiamo. Una società che ha fatto del primato della produzione e della merce il suo dogma, invadendo ambiti e settori (un esempio? I rapporti interpersonali, i sentimenti, la sessualità) un tempo ben distinti da quello che potrebbe essere definito “il cuore pulsante della produzione”. Fin troppo facile dire che anche il comportamento umano è stato ridotto al rango di merce: eppure è così. La maggior parte dei modi di agire dell’individuo è stato inscritta in un sistema che ha progressivamente scardinato i confini tra sfera “del lavoro” e quella personale, trasformando le ultime due generazioni in una moltitudine di soggetti costantemente impegnati a “produrre”. E non solo beni materiali di consumo: se il consenso, in un’accezione più ampia, può essere considerato prodotto, moneta di scambio e termometro dello stato di salute di una società, ecco che il mondo Occidentale negli ultimi cinquant’anni ha fatto di tutto per garantirsi il primato della produzione di questo bene. Il “villaggio globale”, prima ancora di essere la felice metafora di una società basata sulla comunicazioni e sull’informazione, è lo specchio dell’insieme dei rapporti di forza e di produzione che intercorrono dentro la società.

Ora siamo al punto finale. Lo show è finito. Lo specchio si è infranto e con esso il sogno di una società impegnata a produrre sempre di più. Di più. Di più. Una società votata alla competitività fine a se stessa, che oggi riscopre tutti i suoi limiti e paradossalmente vuole affidare il compito di trovare soluzioni a chi per sua natura appartiene a quell’élite che tali problemi ha contribuito attivamente a creare.

La crisi che viviamo (meglio: in cui ci hanno infilato a forza) è strutturale, non congiunturale. Non si tratta di un qualcosa di passeggero, né di un “momento no”. Non ci sono cause esterne contro le quali puntare il dito. Siamo noi la causa. C’è un mondo globale e la sua architettura. Sociale, economica, produttiva, ambientale. E questa architettura non ce la fa più a sostenere l’intero edificio. Punto.

Il sistema non è in grado di garantire vie d’uscita credibili. I tentativi che verranno posti in essere potranno far galleggiare la barca per qualche anno ancora, ma il dazio che tutti finiremo per pagare avrà l’amaro retrogusto di ulteriori iniquità, diseguaglianze sociali, sfruttamento ambientale. Depauperamento e distorsione della natura stessa dell’uomo, che è convivere tra i suoi simili e non sulle spalle dei suoi simili.

In un periodo in cui la produzione di merci ha raggiunto il culmine del processo per cui dal bene materiale siamo passati a quello immateriale, non mi sorprende notare che Internet e le reti sociali digitali rappresentino a loro modo quello che probabilmente è il più forte motore del cambiamento culturale e sociale. Voglio dire, mi pare sensato pensare che una società in rapido cambiamento senta la necessità di modificare i suoi modelli di rappresentazione, intesi grossolanamente come le forme che essa si è data per descriversi e giustificarsi al suo interno e al suo esterno.

Ed eccoci alla Rete, e ai media “sociali”. Nuova agorà, paradigma ultimo dei nuovi movimenti che stanno facendo tremare i Palazzi da New York a Tunisi, ma anche terreno di scontro in tema di diritti e libertà digitali, consumo e consenso. Non trovo così sensazionalistico leggere che i servizi segreti americani stanno monitorando attivamente Twitter. Voglio dire, me lo aspettavo.

E non trovo casuale che in Italia, paese caratterizzato da un “potere catodico” nato ben prima degli ultimi quattro-cinque governi, la televisione assorba così tante (troppe?) risorse economiche pur facendo ben poco per la crescita culturale dei suoi cittadini. Il tutto a scapito di altri “canali” senz’altro più efficaci, moderni, e meno controllabili. Quali Internet, di cui certo mondo politico si accorge solo quando deve “normalizzarla”, quasi fosse un problema di ordine pubblico qualsiasi.

Il 2011 sarà ricordato come l’anno in cui i media sociali sono entrati in una fase di maturità tale per cui sono diventati combustibile attivo per il motore del cambiamento. Megafono virtuale per un malcontento che ci accomuna a tutte le latitudine e con tutti i climi.

Ripercorrendo sommariamente i fatti salienti degli scorsi mesi, ricordo che la rivolta egiziana si è diffusa quando i giovani egiziani di Piazza Tahrir hanno cominciato a usare Facebook per diffondere i loro messaggi, riconoscersi, coordinarsi, riconoscere nel loro prossimo le proprie speranze.

In Tunisia, dopo anni di silenzio forzato, i cittadini hanno trovato la forza di cambiare e ora pare che le cose stiano trovando una qualche normalità: nascono le prime case editrici indipendenti, giornalisti e blogger tirano un sospiro di sollievo, i social media hanno smesso di essere (così pare, almeno) un tabù. Ok, non è molto, ma siamo solo all’inizio.

Poi ci sono mille altri casi in cui media sociali e partecipazione al tessuto connettivo del mondo si sono intersecati fino a diventare tutt’uno. Penso al Giappone colpito dal terremoto, ad hashtag come #Fukushima. Penso all’Abruzzo, al recente allerta maltempo. Penso ai Twestival.

Penso ai vari #occupy. Wall Street come Trieste. E se ci rifletto con attenzione, riesco a sentire che ognuno di noi, nel suo essere infinitamente piccolo, è parte del cambiamento in atto. Quella metamorfosi che investe il tessuto produttivo e dell’innovazione quanto le modalità di espressione del dissenso. E vedo che questo interscambio funziona solo quando a un piano strettamente virtuale ne viene associato uno pratico, reale. Per tale motivo spero che la partecipazione al cambiamento non si sterilizzi in meccanismi strettamente online: qualcosa per cui uno è portato a sentirsi dalla parte del progresso (o, ancora, un attivista) solo perché ha messo il suo like su una bacheca oppure legge quotidianamente il blog di un Grillo qualsiasi. Certo, sempre meglio dell’apatia: ma la speranza è che quel post o quel like diventino in prima istanza stimoli reali in grado di darci la forza per progettare un vivere quotidiano più equo.

In questo preciso momento, là fuori, c’è qualcuno che sta facendo le ore piccole arrabattandosi a trovare soluzioni-tampone per far galleggiare la barca per qualche anno ancora, mantenendo più o meno intatti establishment e rapporti di produzione, consenso, consumo e forza. Un’assurdità.

Allo stesso tempo, c’è chi si è stancato o quantomeno ha un’idea un po’ più chiara di come evitare il baratro finale: e quindi promuove decrescita, sostenibilità, nuovi rapporti economici, finanziari, sociali, personali. La prima via non ci porterà a nulla, se non a tonfi peggiori: sulla seconda non ci metto la mano sul fuoco, ma mi sembra un tentativo più logico e sensato.

È questa l’essenza del ricambio di cui parlavo in apertura, troppe righe fa.

Di fronte al vento che incalza, puoi scervellarti a costruire l’ennesima schermatura dell’ultimo minuto, oppure puoi fabbricare la vela giusta. Tutto sta a saper scegliere se vuoi spingerti, finalmente, in avanti oppure fare l’ennesimo fallimentare passo indietro.

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