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Social media e iper-realtà


Storytelling con Instagram: rischio iper-realtà dietro l'angolo

In questi giorni ho letto in Rete di due progetti fotografici a loro modo molto interessanti. Si tratta di Broken India, progetto fotografico che vuole fare conoscere l’India reale, al di là degli stereotipi pubblicati su Instagram, e di Chompoo Baritone, fotografa di Bangkok, che ha elaborato alcuni scatti sottolineandone il potenziale ingannevole, ironizzando in modo colto e intelligente sull’hashtag #slowlife.

Dov’è la novità di questi due progetti? Dappertutto e forse da nessuna parte. Non è da oggi che si parla di media, mass o personal che siano, come di ribaltamento del cosiddetto “paradigma”, la finestra trasparente da cui tutti noi guardiamo il mondo. Dirò di più, già nel secolo scorso, quando si cercava la radice dei totalitarismi e della tendenza dell’uomo ad aderire alle peggiori utopie del ‘900, si parlava di desiderio intrinseco di fuga dalla realtà. Il movente di tale fuga sarebbe la ricerca estenuante di un mondo maggiormente controllabile e coerente con i propri desideri non espressi. Se ci pensiamo, motivazioni simili – ancorché su piccola scala (non serve scomodare sempre la Arendt) – ci spingono a crearci i nostri personali stereotipi su cose, fatti, persone, alla ricerca di un modo per “semplificare” la realtà e controllarla. Paura di perdere presa sul vissuto che, in altre occasioni, ci spinge a sparlare degli altri, a credere a pseudo-notizie prive di ogni fondamento oppure ancora a dare credito alle teorie più strampalate.

In questo processo di riduzione della realtà a “cosa manipolabile”, nel senso di oggetto più facilmente gestibile dai nostri sensi e dalle nostre costruzioni mentali, i media hanno avuto e hanno un ruolo ineguagliabile. Siamo arrivati a riscrivere la Storia recente del nostro paese grazie ai media, oppure a inventarci geografie alternative e a creare nuovi Stati basati su principi identitari fittizi. Ecco perché, se da un lato di questo tema ne hanno parlato e scritto in molti, dall’altro non ne parleremo e scriveremo mai abbastanza: quindi, dal mio punto di vista progetti come “Broken India” o la scherzosa critica di #slowlife a opera di Chompoo Baritone sono attuali e interessanti. Ed ecco perché merita citarli e segnalarli per ulteriori approfondimenti.

Facendo un salto indietro, già negli anni ’20 si sottolineava la crescente complessità della società, processo che, giunto a un certo punto X, ci avrebbe reso impossibile conoscere direttamente la realtà, intesa come ambiente praticabile. Da qui la necessità di utilizzare una “realtà a scala ridotta”, un modello semplificato che allora venne chiamato “pseudo-ambiente”.

Oggi, frammentazione, parcellizzazione del vissuto in tante micro-narrazioni personali, relativizzazione della società intesa come spazio e luogo entro cui vivere, contribuiscono a quel processo – peraltro già in atto e per i più disparati motivi – di perdita del senso comune e condiviso che l’individuo trova nel reale. In questo scenario di progressiva ricostruzione dei valori e delle esperienze, il Web è diventato il territorio perfetto per la rappresentazione di questo spaesamento, anche grazie alle enormi possibilità concesse in termini di riconfigurazione di mondi fittizi che però hanno una loro componente “realistica” nel momento in cui rispondono perfettamente alla nostra esigenza di confermare una delle tante identità possibili che scegliamo o ci vengono appioppate da un contesto sociale sempre più veloce e frammentato, modellato sullo schema dell’ipertesto.

Ho dato un’occhiata ai due progetti e ho pensato fosse interessante ragionarci su. Anche perché so benissimo che i social media sono diventati in pochissimi anni un frammento importante di una realtà ulteriore, che sempre più spesso si interseca col vissuto. In alcuni casi ci convivono a pari titolo, come fossero un layer sovrapposto all’esperienza reale, in altri casi la soppiantano del tutto. Probabilmente c’è un livello di realtà virtuale dato proprio da questa sovrapposizione tra reale e digitale. Mi pare molto interessante che, solo in pochi anni, si sia passati dall’entusiasmo senza se e senza ma verso i social media alla messa in discussione della loro capacità di raccontare il mondo. Non so dire quale sia il significato di questo percorso: da un lato penso che le esperienze narrative abbiano bisogno di sempre meno tempo per “bruciarsi”, dall’altro immagino che qualcosa stia cambiando. Probabilmente si andrà in direzione di un uso più consapevole, anche se il semplice constatare che i social media non sono un paradigma, una finestra sulla realtà, quanto la riproposizione di un ego collettivo smisurato e per certi versi fuori controllo, mi porta a pensare che “denunce” come questa non servano che ad attestare l’accettazione di questo processo. Un processo di progressivo slittamento della realtà nel mediatico, a favore di una più rassicurante iper-realtà fatta di pseudo-ambienti personali che si intersecano. E che noi chiamiamo conversazione online.

fotografia, instagram, social media

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