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Timu: bollino blu per siti e blog. Non mi convince..


Un bollino blu. Per i blog, per Facebook, per i social network. Un bollino per garantire fonti imparziali e qualità dell’informazione, sulla base dei cari vecchi principi del giornalismo anglosassone.
L’ipotesi circola in Rete e sui giornali da qualche giorno. La scopro sul blog di Vittorio Pasteris: la cosa mi incuriosisce. Inizio a spulciare e leggo altri post interessanti (due su tutti:  TagliaBlog o il blog di Rudy Bandiera), poi salvo sul mio Instapaper la notizia de Il Fatto Quotidiano. Rileggo con calma e quindi, dopo un primo momento in cui mi ero ripromesso il silenzio, decido di intervenire nella conversazione.

L’idea del bollino di autocertificazione viene da Timu, canale curato dalla Fondazione Ahref, realtà presieduta da Luca De Biase e promossa dalla Provincia di Trento tramite la Fondazione Bruno Kessler, realtà quest’ultima che si occupa a vario titolo di ricerca scientifica e tecnologica, studi umanistici e religiosi. Per ottenere il “bollino blu”, l’autore sottoscrive una dichiarazione pubblica di responsabilità e si impegna a seguire i principi di accuratezza dell’informazione prodotta, imparzialità nella presentazione dei fatti, indipendenza da interessi nascosti e da conflitti di interessi. E poi di legalità, ossia il rispetto del diritto alla privacy e delle norme a tutela dei minori, la protezione delle fonti secondo quanto stabilito dalla Legge, il rispetto dei diritti e delle libertà della persona.

Tutto ok. Astrattamente condivido il motivo ispiratore, ma ho i miei seri dubbi che questo esperimento possa funzionare e sinteticamente cercherò di spiegare perché.

1)    Di per sé è irrealizzabile. In qualche modo arriva tardi, a blogosfera già matura, e pretende di riscrivere processi relazionali online consolidati da anni e anni di pratica sul campo. E di sbagli. Inoltre, per essere efficace, dovrebbe essere condivisa non da una nicchia più o meno grande di blog e fonti di informazione online, ma dalla grande maggioranza dei lettori. I quali, tolte alcune eccezioni, non hanno finora mai posto l’esigenza di una 2.0sfera  a misura di codice deontologico per giornalisti.
2)    Non assicura ciò che si promette di garantire. Non essendo (e meno male) una certificazione, bensì un’autocertificazione, non ci dà nessuna certezza sul futuro operato di una fonte di informazione una volta ottenuto il “bollino blu”. E quindi a che serve?
3)    Quanto alle certificazioni in senso lato, di solito chi li assegna, distribuisce o patrocina è un ente super-partes, riconosciuto ufficialmente in quanto tale e autorizzato a farlo. In questo caso, la posizione (rispettabilissima, ci mancherebbe!) di Timu è quella di una tra le tante voci possibili. Da questo punto di vista, messo in questi termini il bollino ha un valore prettamente “simbolico”: parola che nel campo della comunicazione di massa spesso è sinonimo di “fuorviante”.
4)    Attenzione a non confondere piani diversi. O meglio, non è detto che un blog sia sempre fonte di informazione così come intesa da un punto di vista giornalistico. Secondo me si sbaglia a equiparare in tutto e per tutto blog e giornali: il rischio è quello di prendere sonore cantonate, come quando si propone l’iscrizione di un blog al Registro degli Operatori della Comunicazione, oppure si prevedono per i blogger gli stessi doveri e le stesse sanzioni (ma non gli stessi diritti) dei giornalisti. Guardando la questione sotto un’altra luce, un blog o una pagina Facebook può tranquillamente decidere di contribuire alla conversazione online senza “fare informazione” da un punto di vista giornalistico, eppure questo non lo rende meno autorevole di un’altra fonte analoga che magari si comporta in modo diverso.
5)    Piano legale. Quando Timu sostiene la necessità di “proteggere sempre le fonti finché la Legge lo consente” si muove su un territorio spinoso, mettendo sullo stesso piano situazioni molto diverse. Perché è vero che l’articolo 10 della Convenzione Europea afferma in sintesi che ogni persona, avendo diritto alla libertà di espressione, può comunicare e ricevere informazioni senza ingerenza da parte delle autorità, ma è altrettanto vero che il cosiddetto “segreto professionale” vale solo per i giornalisti (professionisti), i quali possono rifiutarsi di  rivelare le proprie fonti persino davanti a un giudice (articolo 200 del Codice di Procedura Penale). Poi, che questa sia una stortura tutta italiana dovuta alla presenza dell’Ordine dei Giornalisti, può essere anche vero. Ma è di sicuro un errore indurre qualche autore a comportarsi come se in grado di godere di tutte le tutele assegnate per Legge a un giornalista, quando invece non lo é. Di fronte a uno scoop, o a una notizia in grado di far tremare Palazzi e Consigli di Amministrazione, il cittadino non ha la stessa assistenza offerta al professionista dell’informazione, nemmeno da un punto di vista legale.
6)    Parliamo di codici di condotta e di regolamenti. Dal Codice Deontologico, alla Carta di Treviso, passando per una miriade di sentenze e aggiustamenti, finanche al Codice Penale, esiste già un pacco così di norme, Leggi e disposizioni che regolano il “fare informazione” sulla base di dettami etici, legali, professionali. Basterebbe applicarli, cosa che non è possibile nemmeno all’interno del mondo dell’informazione “ufficiale”, dati una serie di meccanismi propri dell’Ordine, dei sindacati, delle Authority e, se vogliamo, dello stesso mondo dell’informazione.
7)    Gli strumenti per discriminare una fonte online autorevole ci sono già. Si chiamano commenti, like, condivisioni, tweet e retweet. Si chiamano lettori, internauti.
8)    Cui prodest? A chi conviene l’istituzione di questo bollino blu? Serve a farci parlare di qualcuno? Serve a dare visibilità ai promotori? Agli aderenti? Serve a dar vita al gruppone dei blog “autorevoli”, qualunque cosa voglia dire? Magari per farci un barcamp domani o una serie di conferenze? O costruire una case history? Non lo so, le mie sono solo domande. Però la curiosità resta.

Azzardo una proposta, nella speranza che queste mie critiche siano viste come tali, ossia costruttive.  Come ho già scritto all’inizio, condivido i principi, non la forma. Perché invece di un generico bollino, non diamo vita a una prassi condivisa, per cui una testata (organo di informazione riconosciuto dalla Legge) è tenuta a chiedere (e rendere pubblici sulle proprie pagine) eventuali rapporti di lavoro subordinati, parasubordinati o di tipo consulenziale di quei blogger chiamati a scrivere in qualità di esperti o opinionisti? Il lettore ne sarebbe avantaggiato: potrebbe ad esempio leggere l’articolo X del blogger Y, dove si parla molto bene dell’azienda Z, e sapere subito che Y è o è stato consulente di Z, soppesando quindi le parole dell’autore. E’ una prassi che andrebbe a difendere l’autorevolezza della testata, renderebbe un ottimo servizio al lettore, garantirebbe indipendenza e serietà delle fonti. Certo, è una proposta buttata lì, tutta da verificare in modo da capire forme, modalità e applicazione. Ma potrebbe essere un ottimo antidoto contro tutti quegli articoli, a metà strada tra l’informazione e il marketing mascherato, talvolta ospitati da testate, quotidiani, periodici e supplementi. È un’idea.

 

Update (19 dicembre 2011, ore 19.59):  giustamente mi fanno notare che il bollino proposto da Timu non è blu. E che probabilmente il concetto di “bollino blu” nasce per l’associazione erronea con il marchio delle più famose banane Chiquita. Probabilmente il giornalista de Il Fatto Quotidiano è caduto in questo lapsus (e io con lui, e mezzo Web con me) perché inconsciamente non crede molto alla proposta.

comunicazione, giornalismo, social media

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