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Università: dal numero chiuso alla formazione parallela


Università a numero chiuso

Università a numero chiuso! E parte la guerra delle opinioni. La recente mozione di Gianluca Vago, rettore dell’Università Statale di Milano, che ha introdotto il numero chiuso nelle facoltà umanistiche dell’ateneo ha riacceso la polemica su uno dei temi più dibattuti degli ultimi decenni: il diritto allo studio.

I promotori della scelta sostengono di averlo tutelato. Procedere altrimenti avrebbe voluto dire non poter attivare tutti i corsi, causa il mancato rispetto del rapporto tra professori e studenti stabilito dalla Legge (9 per la triennale e 6 per la specialistica). I contrari, associazioni studentesche e diversi professori, sono su tutte le furie: il continuo calo di iscritti all’Università italiana, dicono, non giustifica provvedimenti così drastici.

In mezzo alle opinioni, il dato rimane: dal prossimo anno accademico i posti disponibili per Lettere, Filosofia, Beni culturali, Geografia, Storia saranno poco più di duemila.

Numero chiuso: le origini di una scelta (difficile)

Coincidenza, la notizia mi è arrivata mentre stavo pensando a un post su università, cicli di studio e formazione parallela. Motivo per ci conviene ripercorrere le tappe che hanno portato alla decisione di introdurre il numero chiuso nell’ateneo di Milano. Comincio col dire che non si tratta di un fulmine a ciel sereno: il problema del rapporto tra studenti e docenti universitari è ciclico e, in epoca di precariato galoppante, si ripropone a periodi più o meno regolari.

Molte università si fondano sui docenti precari, talvolta facendo uso di una certa creatività nel contrattualizzarli. Un fenomeno, questo, che nasce da cause lontane, non ultima l’esistenza di quell’area grigia formata dalla generazione precedente: contrattualizzati, garantiti, trattati molto bene in termini economici. Qualche volta, poco propensi ad aggiornarsi, di sicuro con un indice di produttività inferiore alla media.

Una “voce di costo” che impoverisce quotidianamente l’università pubblica, fa scappare all’estero centinaia di cervelli che qui avrebbero dovuto campare a suon di micro-contratti e pesa in modo negativo sul servizio reso agli studenti stessi.

Rapporto docenti/studenti: le due facce della medaglia

Per questi e altri motivi si era vita di buon occhio la norma che stabiliva la necessità di un numero congruo (e proporzionato agli studenti iscritti) di docenti ordinari, associati, a contratto, ricercatori. Logica che non fa una piega. Ma come si fa a regolarizzare la situazione? Con i concorsi. E qui comincia un’altra serie di dubbi.

Negli scorsi anni, alcuni atenei hanno pensato bene di aspettare l’ultimo momento per rientrare nelle regole. Poi, vuoi la fretta, vuoi tutto il resto, hanno indetto al fotofinish i relativi concorsi, con un’approssimazione tale che solo la buona fede (o l’ingenuità?) ci permette di definire limpidi. Risultato? Un bel po’ di caos, ruoli che sono saltati e, tra i tanti meritevoli, la solita robusta iniezione di personale raccolto a casaccio, più per la necessità di fare numero che di valutare con chiarezza meriti, capacità, pubblicazioni, excursus professionale. Quando si dice: il rammendo è peggio del buco.

L’università deve selezionare?

Io penso di sì. Dovrebbe fornire strumenti, pratiche e saperi atti a stimolare il pensiero critico e lo sviluppo di una cultura adeguata alle sfide del mondo contemporaneo, oltre che trasmettere quel sistema più o meno complesso di nozioni utili a svolgere una professione, verificandone la corretta assimilazione. La realtà è un po’ diversa: negli ultimi decenni siamo passati da un sistema formativo che selezionava essenzialmente per reddito a una sorta di “università allargata” e massificata che ha trasformato molte facoltà in parcheggi a lungo termine. Da qui, per sommi capi, è nata l’esigenza di un’ulteriore selezione della futura forza lavoro, motivo per cui sono spuntati come funghi corsi post-laurea e Master, giustificati in apparenza dalla necessità di una “formazione permanente”, o dalle richieste del mercato, ma in fin dei conti motivati anche dalla progressiva metamorfosi del concetto di formazione in business.

Sono convinto che ogni scuola debba selezionare, perché la qualità del metodo e degli insegnamenti proposti si vedrà anche e soprattutto dai risultati ottenuti dagli ex-studenti. Tale selezione si opera: all’entrata o durante il corso di studi. Dirò di più: vanno premiate quelle componenti non strettamente legate all’apprendimento delle nozioni, e nella prospettiva di “formare” (ossia dar forma) il cittadino e professionista del domani, andrebbero presi in considerazione – pur con tutto il tatto del caso – fattori esterni al mero apprendimento del libro di testo e degli appunti presi a lezione. Lo sanno molto bene, sin dall’inizio dell’anno accademico, i miei studenti: capacità e voglia di aiutare gli altri, di fare gruppo e di sapersi mettere al servizio della classe sono parametri che vanno a incidere sulla valutazione finale, e questa credo sia una delle frasi che mi sentono ripetere più spesso.   Dai miei corsi deve uscire gente brava, responsabile e altruista, capace di lavorare in squadra, di pensare insieme e di valorizzare ciò che unisce i partecipanti a un gruppo piuttosto che limitarsi a evidenziare ciò che li divide. Formazione, per me, è anche questo.

L’università deve selezionare, o all’ingresso o durante il percorso: e ora non lo sta facendo sempre. Non sempre almeno e non con i mezzi giusti, prendendo in considerazione parametri importantissimi. Su questo pesa molto non solo l’organizzazione stessa dell’università e il suo ruolo nella società italiana (da eccellenza a esamificio nel giro di poche riforme), ma anche e soprattutto il mancato controllo da parte di quei soggetti responsabili dell’erogazione di un servizio di qualità. E già, perché ci indignamo per un numero chiuso oggi, ma non abbiamo detto una parola di fronte a corsi di laurea che aggirano numeri chiusi che a nessuno verrebbe in mente di contestare (Psicologia), oppure sulla ridda di sentenza che permette a uno che passa l’esame in Spagna di dirsi avvocato anche in Italia.

Università, scuola e formazione parallela

Ciò che mi rende tutto sommato sereno rispetto alla notizia di oggi sono le incessanti modifiche del mercato e della società. Sì, e le competenze parallele – ossia tutto quel complesso di saperi appresi al di fuori dei percorsi standard tipo licei e universitàsono e saranno sempre più decisive per far fronte a uno scenario in continua evoluzione. Saperi di cui oggi non possiamo nemmeno calcolare il peso specifico futuro, in quanto le professioni del domani semplicemente non esistono ancora. Saperi che andrebbero normati e valorizzati. Qualcosa si fa e, talvolta, il volontariato si traduce in crediti formativi (CFU). La strada è quella giusta, bisogna solo insistere e allargare la visione.
Perdo le staffe ogni volta che apprendo di miei studenti che, pur studiando Comunicazione, non hanno mai messo piede in Triennale. Nell’ottica di coltivare gli individui, e non solo i libretti universitari, occorrerebbe un metodo per ufficializzare e tenere traccia di queste attività (banalmente potrebbe bastare un tesserino da vidimare ogni volta che si va a una mostra, si partecipa a un corso o workshop, o in generale si riesce a dimostrare di essere soggetti attivi, curiosi e propositivi all’interno della società), importanti per determinare il “valore” di uno studente tanto quanto l’aver studiato a menadito libri e dispense.

Per questo motivo ritengo che il numero chiuso, di per sé utile a garantire qualità, sarà sempre uno strumento zoppo finché non cambieranno meccanismi di garanzia, criteri di selezione e valutazione permanente del personale e, soprattutto, non si attribuirà maggiore importanza all’istruzione come percorso attivo per formare studenti capaci che dovranno essere chiamati a ricoprire il non facile ruolo di cittadini consapevoli in un mondo globale e tecnologico.  E, proprio per questo, caratterizzato da un grado di complessità crescente.   

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