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Godot tra le sbarre, per guardare oltre


Godot tra le sbarre in teatro a Voghera

 

Torno a parlare di teatro. Di teatro e di carcere. Il 27 giugno del 2012 ho avuto l’opportunità di entrare nel casa circondariale di Voghera in occasione della prima di “Nuvole Spray”, spettacolo diretto dal regista pavese Davide Ferrari e liberamente ispirato alle Nuvole di Aristofane.
Stesso luogo, diversa la storia che domani 25 luglio si racconterà. Domani infatti andrà in scena “Aspettando Godot” di Samuel Beckett della compagnia Maliminori, diretta dallo stesso Ferrari. Uno spettacolo che è il frutto felice di tanta passione, professionalità e lavoro, all’interno di un laboratorio teatrale finanziato da APOLF, a cura di Compagnia della Corte.
Un testo come Godot è attesa pura e fine a se stessa. E proprio quella stessa attesa permanente sarà messa sul palcoscenico come irripetibile occasione di presa di coscienza, non solo di chi attende qualcosa o qualcuno, ma anche di chi – come noi – pur calandosi nelle vesti dello spettatore ritrova nella struttura penitenziaria lo stesso grumo di vincoli, opportunità e sospensioni del tempo e dello spazio che ci sono qua fuori.

Per questo motivo ho deciso di porre alcune domande a Davide Ferrari, in un concitato scambio di email trasformatosi nell’intervista che segue.

Come si è evoluto nel tempo il tuo percorso di lavoro col teatro in carcere?
Lavoro in carcere da sei anni. Conduco laboratori di scrittura e poesia. Inoltre mi occupo di laboratori di espressione corporea in progetti dedicati al tema della genitorialità con l’associazione Synodeia, specializzata in questo ambito.
Alla Casa Circondariale di Voghera invece conduco un laboratorio teatrale che ha come esito finale uno spettacolo con protagonisti i detenuti.
Negli anni abbiamo messo in scena un adattamento della Terra Desolata di T. Eliot, La tempesta di W. Shakespeare, Le nuvole di Aristofane, Nuvole Spray – un mio testo, e quest’anno ci siamo confrontati con Aspettando Godot di S. Beckett.
Ogni anno è una nuova scoperta, anche perché i partecipanti al laboratorio cambiano, e una nuova conquista; quest’anno in particolare. Con Aspettando Godot nasce ufficialmente Maliminori, la compagnia stabile del teatro del carcere di Voghera. Inoltre, per la prima volta in questo carcere, a maggio si è svolto un laboratorio teatrale con una compagnia esterna di attori professionisti, Teatri35 di Napoli, che hanno dato la possibilità ai detenuti partecipanti al corso di sperimentare la tecnica dei tableux vivants.
Tutte le attività sono state documentate dalla fotografa Alessia Bottacio (la foto di copertina è sua), che ha realizzato un progetto fotografico molto intenso che restituisce in modo sorprendente le giornate di prove e il clima che si respira durante le ore di lavoro. Sono passi importantissimi che spero permettano, col tempo, la costruzione di una struttura sempre più solida che dia continuità all’attività.
Tutto questo è possibile, e lo dico senza nessuna retorica, grazie alla collaborazione e professionalità degli agenti della Polizia Penitenziaria, degli educatori e soprattutto alla fiducia e disponibilità del direttore Maria Gabriella Lusi. Lavorare in un contesto del genere è delicato e complicato; nell’opinione comune il carcere è associato quasi sempre e solo al disagio e alle difficoltà. Ma con la direzione abbiamo l’obiettivo comune di voler dare rilievo anche alle attività positive di qualità che vengono svolte all’interno.
In questo senso, mi sento di dire che Voghera è un esempio virtuoso.
 
Aspettando Godot di S. Beckett è un testo sull’attesa di qualcuno che non arriva mai. Come hai affrontato questo tema proprio in un carcere? E come hai lavorato sulla messa in scena?
Devo dire che poter lavorare su un testo che è una pietra miliare della drammaturgia del 900 con persone per cui l’attesa è una condizione di vita quotidiana e, in molti casi, permanente, è una sfida e un’opportunità di ricerca, a livello teatrale e soprattutto umano, interessantissima e molto profonda.
Credo che questo testo non sia così semplice da mettere in scena, soprattutto per gli attori.
Beckett, più di altri drammaturghi, dà le indicazioni di scena (silenzi, movimenti, azioni) in modo precisissimo. Non c’è spazio per l’improvvisazione. Tuttavia, in fase di laboratorio, le riflessioni e le proposte dei ragazzi sono state così pertinenti, profonde e ricche di umanità e immagini che ho deciso di intervenire, seppur minimamente, sul testo.
Faccio un esempio. Ho chiesto ai ragazzi di lavorare sul tema dell’attesa anche attraverso sogni e incubi ricorrenti. Quando hanno portato il materiale che hanno prodotto, ho scoperto che per loro, il sogno e l’incubo convivono costantemente: il sogno di riabbracciare la donna che amano e i propri figli si trasforma nell’impossibilità di quell’abbraccio. I loro cari sono lì ma è come se fossero fantasmi.
Così abbiamo lavorato su immagini che potessero restituire questa sensazione e le abbiamo inserite nei momenti in cui uno dei due protagonisti del testo, Estragon, si addormenta e sogna.
Nei sogni del personaggio affiora la vita della persona.
Inoltre queste suggestioni hanno dato la direzione per la scelta delle musiche di scena. Ho deciso di usare alcuni brani della Banda di Palermo e alcune canzoni popolari di tradizione balcanica perché in esse convivono, e secondo me restituiscono perfettamente, la gioia e la malinconia come nel sogno/incubo. Convivenza degli opposti, come la Wedding and Funeral band di Bregovic appunto.

Quali sono le differenze, se ci sono, tra un lavoro con attori professionisti e uno in un contesto delicato come quello detentivo?
La cosa che mi ha colpito di più fin dalla mia prima esperienza in carcere è stata la capacità di queste persone, se si crea la fiducia necessaria, di mettersi in gioco senza riserve. Di riuscire a giocare per davvero nel momento in cui calcano la scena. Come se non avessero niente da perdere. Cosa che non sempre capita con attori professionisti. È proprio in questa dimensione di gioco che ho riscontrato in loro la capacità di fare come i bambini che fanno teatro o giocano appunto: non fingono mai. Sono davvero quello che dicono di essere. E questo aspetto amplifica enormemente la vita della scena e il loro modo di incarnare il testo è quasi magico.
Poi, la dimensione professionale può anche essere una possibilità per i detenuti-attori. Sia dentro il carcere sia nel momento in cui usciranno.
Penso che molti di loro, per quello che vedo, potrebbero intraprendere, anche professionalmente la strada del teatro. Come è successo ad un nostro ex compagno che è stato con noi a Voghera e l’anno dopo ha avuto grande successo in Cesare deve morire dei Taviani.
Ma, indipendentemente da questo discorso, penso che dare alle persone detenute  l’opportunità di scoprire le proprie qualità, la propria capacità di creare e stare in un gruppo, soprattutto la possibilità di esprimersi attraverso l’arte, allevii non poco la loro permanenza in un istituto di pena e possa essere un modo, una volta fuori, di occupare il loro tempo in qualcosa di positivo, sia percorrendo seriamente quella strada ma anche solo per portare avanti una passione che hanno scoperto di avere.
Quest’anno in particolare la risposta a un progetto del genere è stata ottima. Ho chiesto ai ragazzi moltissimo e loro hanno affrontato questa sfida con impegno, fiducia e disponibilità dimostrando che, se c’è la volontà, potrebbero mettere a frutto le loro qualità per qualcosa che produca valore.

 

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