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Il modello Huffington Post


Due notizie in rapida successione portano a riflettere su Huffington Post e sul modello che negli ultimi anni si è imposto in Rete. La prima è che Lucia Annunziata sarà il direttore di Huffington Post Italia. La montagna ha partorito il topolino. Dopo mesi in cui ci si interroga sul prossimo (e, per molti versi, auspicato) sbarco nel nostro paese della testata lanciata nel 2005 da Arianna Huffington, e delle possibili conseguenze che ciò potrebbe avere per lo scenario dell’informazione in Italia, sapere del coinvolgimento della giornalista di Sarno è una mezza delusione.

Non ritengo lei possa rappresentare quel nuovo di cui il giornalismo italiano, piegato su modelli vecchi di 40 anni e drammaticamente segnato dal precariato delle menti più giovani, ha estremo bisogno. Rappresenta il giornalista salottiero, radical-chic, la cui carriera si è sviluppata tra la rotativa e la frequentazione dei posti che contano. Per non parlare del rapporto col digitale: mentre l’informazione mondiale si pone una serie di domande sul proprio futuro – futuro che passa necessariamente per i media digitali e interattivi, per i loro linguaggi e le loro pratiche condivise – devo dire mi sarebbe piaciuto vedere al posto dell’Annunziata qualche collega che ha nel Dna questi linguaggi e queste pratiche. Sarebbe stato un bel segnale. Di cambiamento. Vero.

Discutevo su Twitter con @ladegri e il suo commento sulla nomina dell’Annunziata ha dell’illuminante. “A pochi giorni dal Festival del Giornalismo, che ha galvanizzato tutti, sembra una beffa”.

Voglio anche aggiungere una seconda riflessione. Lo scorso anno, scrivevo di Huffington Post, di crowdsourcing, di produzione della notizia, e di tutti i dubbi che nutro nei confronti di un modello che, come scrive il Nichilista, pretende di trasformare la visibilità in moneta.

“(…) è un modello che non funziona. Pensare che la visibilità sia moneta può avere senso se si scrive per un pubblico vasto come quello dei cittadini digitali che leggono in lingua inglese. Ma se si parla ai soli italiani, le possibilità che quella visibilità si traduca in valore si riducono sostanzialmente. Andando più in profondità, poi, si potrebbe contestare che sia accettabile anche solo l’equazione di visibilità e moneta. Il contenuto è moneta. Se i contenuti sono buoni, prima o poi si traducono in visibilità. E se quella visibilità è basata sui contenuti, è più probabile che qualcuno che considera il denaro moneta – o più prosaicamente, remunera il lavoro – si accorga che vale la pena tradurla in un salario, o in un compenso: perché produce valore anche per lui. Ma il problema, nella sua essenza, è che remunerare il lavoro con la visibilità è una sconfitta civile, prima che economica, per una società. E’ un segno che l’asticella del rispetto si è abbassata di una tacca di troppo. E sarebbe il caso che blogger e precari del giornalismo se ne accorgano”.

 

 

 

 

giornalismo, informazione

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