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Il racconto biografico: intervista a Nina Ferrari


Scrittura e racconto biografico rappresentano il modo migliore per accedere alla memoria delle singole persone e delle famiglie, coltivarla e farne materiale utile a crescere e capire.

“Prima si pensi a vivere, poi a fare della filosofia” è un monito che abbiamo sentito ripetere più e più volte. Ci esorta a occuparci in prima istanza degli aspetti legati all’esserci in questo mondo e poi, solo in un secondo momento, alimentare pensieri o congetture con cui quotidianamente ricreiamo il mondo nella nostra mente per raccontarlo di nuovo, sotto una nuova veste.

Ma allora che ci sta a fare la scrittura? Voglio dire, non è essa stessa memoria e, in controluce, biografia? Non è essa stessa vita vissuta e cristallizzata in parole, pensieri e congetture? Non è forse uno strumento quasi magico per realizzare i propri obiettivi che conferisce un senso al lento susseguirsi dei giorni? Certo, va utilizzata con consapevolezza, altrimenti rischia di diventare il trono della boria, il piedistallo da cui fuggire dal mondo, quando invece dobbiamo sperimentarlo e attraversarlo. Questo desiderio di disfarsene mi ricorda i ragionamenti di Ray Bradbury, che non ha mai fatto mistero del suo bisogno di scrivere per non farsi raggiungere dall’imperfezione del quotidiano e dai suoi più intimi squallori.

Per alcuni la scrittura è un rifugio, per altri una terapia o un anestetico che aiuta a prendere le distanze dalla realtà, a renderla diafana, sottile e, forse proprio per questo motivo, più facilmente assimilabile. Ma fortunatamente ci sono anche persone fatte di una sostanza diversa. Sto parlando di mani, cuori e quaderni di appunti di certo meno in vista di un Bradbury o di un Joyce: occhi che guardano alle pieghe del mondo con meraviglia e rispetto, alla ricerca non di epifanie o di innominabili significati, ma di quella vita pulsante, magmatica e indefinibile che può essere incastonata in un senso, in una direzione o in un significato solo grazie alla parola scritta. Per questo motivo, la scrittura è una forma di meditazione.

Negli anni il mio lavoro e il mio stile di vita mi hanno portato a conoscerne diverse: Nina Ferrari è senza dubbio una delle più preziose.

Il suo lavoro – ma anche, se vogliamo, la sua missione – è mettere la scrittura al servizio delle persone allo scopo di recuperare la vita offuscata dai meandri del vissuto personale e famigliare. Scrittura biografica, quindi, ma trattata ed esplorata con tutta la sensibilità del caso. Decine di persone le hanno commissionato la stesura del proprio racconto autobiografico o la scrittura della storia della propria famiglia. Materia delicata, altro che i sogni. Qui si parla del tessuto che lega la Storia collettiva alle piccole grandi storie di ogni giorno, come se tutto fosse un enorme laboratorio di storie.

Tutto questo e molto altro ancora ha un nome, Il Tuo Biografo, e rientra a pieno titolo nel concetto di scrittura consapevole che anch’io, nel mio piccolo, difendo e porto avanti. Per questo motivo, affascinato dal rapporto tra scrittura, memoria e biografia, ho deciso di intervistare Nina. Ecco cosa mi ha raccontato:  

Il racconto biografico permette di coltivare la memoria individuale e collettiva.

Ciao Nina, innanzitutto grazie della disponibilità. Cosa vuol dire essere una biografa?

Essere una biografa significa coltivare la passione per le storie delle persone, prendermi cura delle loro memorie e trovare il modo migliore per capirle e raccontarle in forma scritta. Ogni individuo ha i propri temi, il proprio movente, un modo unico e articolato di interpretare il mondo che lo circonda – ha persino un proprio ritmo: per comprendere tutto questo è necessario praticare un ascolto attivo, che non si fermi alla superficie, ma che incalzi un’auto-riflessione in chi intraprende un percorso biografico al fine di svelarne la personalità. Io ho sempre amato conoscere profondamente le persone, perché sono sistemi unici dotati di una propria coerenza e di una bellezza che non è mai ripetibile. Eppure siamo anche tutti accumunati dai grandi temi della vita, che ognuno interpreta vivendo – e pensando – a modo proprio. Un biografo deve capire quali temi universali rappresentano il motore dell’individuo che intende raccontare e poi declinarli all’interno della narrazione dei minuti fatti che compongono la sua vita.

Questa mia naturale propensione al voler conoscere profondamente le persone, accostata allo studio anche accademico di temi connessi alla memoria e all’identità e alle sue espressioni, e naturalmente a una passione per la letteratura e allo studio della scrittura e della narrazione, ha fatto di me una biografa in modo quasi naturale. Io ho una formazione prima filosofica e poi editoriale: ho lavorato per diverse case editrici per alcuni anni prima di decidere di costruire il progetto di Il Tuo Biografo: quindi anche declinare la biografia in una forma-libro è stato spontaneo, perché quello dei libri è un linguaggio che conosco bene. Quando ho avuto quest’idea – ovvero quella di propormi come biografo delle persone comuni per salvare e raccontare la loro storia – ho impiegato diversi mesi a progettarla, al fine di strutturarla sia dal punto di vista etico che operativo. Ho lanciato il mio progetto all’inizio del 2017: è ancora giovane, ma sono felice di vederlo crescere.

Parlaci de Il Tuo Biografo. Di cosa si tratta e come ti è venuta l’idea di mettere la scrittura biografica al servizio delle persone?

Nella mia vita, come in quella di molti, diversi fili piantati lontano si sono intrecciati in un preciso momento rendendo quasi ovvio il passo successivo, anche se poco prima mai sarei riuscita a immaginarlo. Prima di cominciare a sviluppare il progetto di Il Tuo Biografo, mi trovavo in un punto molto incerto della mia vita professionale: avevo lavorato per anni per diversi editori e mi ero appena licenziata da un posto fisso in un’importante e bella casa editrice italiana. A questa decisione difficile non ero arrivata con leggerezza, anzi, anche perché ci trovavamo in piena crisi economica: eppure mi rendevo conto che proprio in un simile periodo storico era necessario osare e tentare di piegare le regole del gioco – essendo nata all’inizio degli anni Ottanta, facevo comunque parte di una generazione che difficilmente avrebbe visto una pensione decente, no? Allora tanto valeva avere il coraggio di scoprire se ero in grado di costruirmi un futuro che mi somigliasse di più. Per un certo periodo feci diversi lavoretti precari e mi concessi finalmente un momento di profonda riflessione: cosa avevo sempre amato? Cosa sapevo fare meglio? Dopo qualche mese, improvvisamente ebbi un’illuminazione: “Posso fare la biografa!”. Ho sempre saputo scrivere, ho sempre amato le persone e sapevo come produrre un libro; inoltre ho sempre avuto una passione intellettuale molto spiccata per temi connessi alla narrazione, alla memoria e all’identità. Ricordo ancora l’istante preciso in cui mi accorsi che tutto quello che avevo fatto e studiato fino ad allora mi rendeva una biografa naturale. È stato un momento bellissimo.

Così ho cominciato a progettare Il Tuo Biografo, che è un contenitore che lega scrittura e narrazione alla memoria biografica e il cui scopo principale è quello di permettere alle persone di raccontare se stesse perché le loro memorie vengano salvate e tramandate in un libro bello sotto tutti i punti di vista: sia sotto il profilo letterario che sotto quello fisico. Non tutti hanno dimestichezza con la scrittura né hanno voglia o tempo di scrivere le proprie memorie, ma questo non significa che non abbiano una storia da raccontare. Il mio ruolo di biografo è quello di ascoltare e di capire e poi di raccontare questa vita in maniera letteraria perché anche altri possano goderne. Lo faccio con discrezione però: a ogni mio cliente firmo un accordo di riservatezza perché si senta libero di esprimere quello che vuole sapendo che la sua privacy non verrà violata. Io non scrivo libri perché vengano distribuiti in libreria: i miei sono libri privati, stampati in pochissime copie perché siano distribuiti solo tra coloro che contano per il mio cliente.

Poi, però, è anche vero che ogni progetto è personalizzato: è possibile che qualcuno voglia solo un testo e non un libro o abbia già un testo che vuole che venga solo corretto; è possibile che una persona voglia scrivere la propria autobiografia e cerchi un supporto professionale per realizzarla. Io arrivo dove c’è una storia da raccontare, dove c’è una biografia da sondare, dove ci sono radici da ricordare: e faccio sì che ogni percorso biografico risponda alle esigenze di chi mi contatta.

La biografia viene scritta in prima persona?

Dipende. Come ogni persona, così anche ogni biografia è un progetto unico e originale, ritagliato su misura su chi si vuole raccontare. Prima di cominciare la stesura della biografia, io e il mio cliente ci confrontiamo sempre su che tipo di libro vorrebbe ottenere alla fine del percorso biografico. Finora ho scritto in prima persona e in terza persona e anche in forma d’intervista – quindi esplicitando la mia presenza e, in qualche modo, la mia personalità nel testo. Ovviamente il genere letterario del libro, assieme alla sua struttura e al suo linguaggio, è diretta espressione della personalità e delle esigenze di chi si racconta. Non potrebbe essere altrimenti.

Cosa riceve il cliente? Un libro, un e-book?

Di solito, riceve da tre a più copie della sua biografia in formato cartaceo, stampata su carta pregiata, in un libro rilegato a mano, con copertina personalizzata sotto ogni aspetto. Per quanto riguarda la parte produttiva, ho contattato artigiani bravissimi nel loro campo. Il mio lavoro si ferma una volta impaginato il testo con le immagini: poi la realizzazione fisica del libro passa a loro, cioè a chi se ne occupa per mestiere da diversi anni. Io credo che la creazione del libro cartaceo sia fondamentale per sottolineare il messaggio che sta alla base di Il Tuo Biografo: un libro di qualità, ben rilegato, è fatto per durare, per mantenere a lungo la memoria di chi si racconta; certo non può cancellarsi in un colpo assieme alla sua traccia elettronica perché si è bruciato l’hard disk del computer. Magari può essere relegato alla parte più polverosa della libreria, ma quando verrà ripreso in mano ricomincerà a parlare come se fosse appena stato stampato. Un oggetto concreto e ben fatto come un libro rilegato a mano non può dissolversi facilmente e dimostra subito di essere prezioso, fin dalla sua copertina.

In rari casi, come per esempio quando ho scritto brevi biografie professionali, il mio lavoro si è concluso con la semplice redazione del testo o con l’editing di un testo che c’era già: in quel caso non è stato fatto un libro, perché il cliente non mi aveva contattata per conservare la propria memoria, ma per ragioni più operative. Ogni progetto è appunto personalizzato sulle esigenze del cliente e io posso intervenire laddove sia richiesto di raccontare in forma scritta una storia connessa alla biografia di una persona, di una carriera o di un’azienda, qualsiasi sia l’obiettivo finale. Il linguaggio adottato e la forma data al testo si adattano di conseguenza.

Quanto tempo ci vuole di solito per confezionare una biografia?

Anche in questo caso molto dipende dalla storia della persona, dal taglio che si vuole dare al racconto, dalla mole di materiale iniziale e dall’esistenza o meno di appunti biografici – diari, appunti, memorie – che fungano da traccia al lavoro. Nel percorso biografico standard, c’è prima un periodo di racconto, in cui io e il mio cliente ci incontriamo regolarmente perché possa intervistarlo, e poi un periodo di stesura dell’opera in cui lavoro da sola. Se l’obiettivo è quello di creare un libro, il tempo necessario alla sua produzione definitiva può variare da qualche mese a un paio di anni al massimo – bisogna tenere conto che in alcuni casi già solo il periodo di interviste può durare qualche mese!

Nel limite della dovuta privacy, ci puoi raccontare qualche aneddoto curioso relativo al tuo lavoro?

Poiché io firmo un accordo di riservatezza a coloro che mi si raccontano, perché possano sentirsi liberi di dirmi tutto, anche quello che non necessariamente finirà nella biografia, non posso aprirmi molto su questo tema. Credo però che una delle situazioni che più mi ha piacevolmente stupita sia stato quando uno dei miei clienti mi ha chiesto di raccontare alcune parti della propria vita a registratore spento: ha cioè approfittato a tutto tondo dello spazio biografico per concedersi il piacere del ricordo e del racconto di sé, al di là del fine ultimo che era creare la sua biografia. In alcuni casi mi è capitato che, alla fine di una sessione d’intervista, la persona con cui avevo dialogato mi dicesse: “Non mi aspettavo che avremmo parlato di questo”. La bellezza di un percorso biografico è che si tratta di un cammino costruito sulla persona, ma, grazie al dialogo con un professionista che è lì solo per quello, può essere anche uno spazio di riflessione e di scoperta di sé.

Scrivere la propria biografia è un atto di consapevolezza verso se stessi e il proprio vissuto.

Perché senti di dover aiutare le persone a scrivere la propria biografia personale e famigliare?

Perché siamo nell’epoca della velocità, delle informazioni che un giorno sono tutto e il giorno dopo vengono completamente dimenticate; le notizie si susseguono una dopo l’altra senza permetterci di avere punti fermi. E, sebbene questo sia un periodo storico che ci invita a essere veloci, l’essenza dell’uomo e della sua felicità non è cambiata: siamo animali relazionali, sia in verticale – attraverso le generazioni – che in orizzontale – ovvero rispetto ai nostri cari che ci circondano – e abbiamo bisogno di dare un senso alla vita.

Uno dei sensi possibili della vita di cui io mi prendo cura è quello della consapevolezza di ciò che siamo, che è la base fondamentale per poter decidere in che direzione andare avanti. Tutti abbiamo una storia alle spalle, che in parte ci dice chi siamo: che sia la nostra o quella di coloro che ci sono accanto o che ci hanno preceduti, parla di noi. Io chiamo questa storia il nostro “patrimonio immateriale”, perché è preziosa ma non può essere ereditata grazie a un semplice atto notarile: è facile perderla per strada se non la preserviamo attivamente e l’unico modo per trattenerla è attraverso la coltivazione della memoria e la forma del racconto. Questo fatto del racconto è molto importante, ma a volte sottovalutato. Basti pensare alle fotografie che a volte rinveniamo nei bauli dei nostri nonni: senza una descrizione che ci dica cosa ritrae quella fotografia, essa per noi rimane muta, non ci dice nulla. Mentre l’abbiamo in mano, se i nostri nonni non sono più qui a raccontarsi, noi ci rendiamo conto di avere tra le mani una memoria perduta. Nessun oggetto è capace di restituirci le nostre radici se privato della sua storia.

Io credo che la consapevolezza delle nostre radici ci permetta non solo di ricongiungerci a valori importanti, come quello della famiglia, della tradizione culturale o della cura profonda di sé, ma anche di poter affrontare la vita con maggiore solidità e direzione: se so da dove vengo, se so chi sono, non basterà un venticello passeggero a smuovermi o a farmi perdere nel rumore informe della contemporaneità, a impaurirmi o a bloccarmi. Chi racconta la propria storia fa un regalo a se stesso perché si concede uno spazio tutto per sé, ma al contempo regala ai propri cari un pezzo della loro storia: credo che una biografia possa essere uno strumento di dialogo tra generazioni, di passaggio di conoscenze e saggezza e, in ultimo, uno spazio per riflettere su se stessi e sulla propria vita.

Qual è il valore della biografia personale in un mondo di narrazioni globali e tecnologiche?

La biografia di una singola persona è solo un punto di vista, è un frammento, e non può rappresentare la Verità, posto che una Verità assoluta possa davvero esistere. Ma ci permette di immedesimarci per capire davvero l’altro o un’altra epoca o un’altra storia – e a volte anche capire noi stessi – con una potenza sconosciuta a qualsiasi altro tipo di narrazione: il racconto biografico letterario, con la sua capacità di rendere presente ciò che è assente, ovvero l’immaginazione o la memoria intangibile, proietta il lettore lì e allora nonostante la distanza, sia essa fisica o temporale.

Le narrazioni globali e tecnologiche di solito sono generali o impersonali: per essere comprese attingono alla razionalità, al senso dell’utile, e non all’emozione o alla percezione di sentirsi co-uomini rispetto al vissuto di qualcun altro. Certi fatti della vita e della storia, in quanto strettamente connessi al pensiero e all’attività umana, possono essere solo compresi con un pizzico di emotività, che è l’unico strumento a nostra disposizione per provare empatia. Perciò accostarsi a tracce d’archivio o a libri di storia non potrà mai dirci tutto quello che un racconto letterario saprà invece suggerirci grazie alla parola poetica: qualsiasi verità possibile può essere trovata solo in un punto a metà strada tra il mero dato storico e un punto di vista personale capace di trasmettere quel dato con emozione.

Io credo che le narrazioni globali tendano a ridurre i singoli uomini a puntolini inghiottiti dalla Storia; sono dunque molto differenti dalle storie personali, che, quando ci spingono all’empatia, ci fanno sentire meno soli. Credo che questo pregio delle biografie abbia un valore incommensurabile.

Prima mi accennavi a un concetto che mi ha colpito molto: l’educazione permanente alla memoria. Ce lo spieghi? Qual è il rapporto tra memoria collettiva e vite dei singoli?

L’educazione permanente alla memoria è un’educazione alle radici, siano esse collettive, dunque di un popolo, o personali, sempre però col fine di comprendere e agire nel presente o di immaginare il futuro. Io credo fermamente che viviamo in un’epoca che non solo ci permette, ma che a volte addirittura ci esorta a essere sradicati, senza-memoria, che ci invita a un pensiero di tipo immediato, in pillole, che risponda al linguaggio del marketing – e ogni volta a un messaggio diverso, anche se discorde da quello precedente. È il tipo di società che acquista il proprio precario potere dalle banderuole che girano dove soffia il vento, dimentiche del terreno in cui sono piantate.

L’educazione permanente alla memoria è uno dei possibili approcci critici a questo genere di retroterra culturale, perché ci riporta a osservare noi stessi e il mondo intorno a noi con maggiore attenzione e a immunizzarci almeno in parte dalle bugie e dalle false promesse – e dunque anche dalla rabbia che scoppia dentro di noi quando ci rendiamo conto di essere stati fregati. L’educazione permanente alla memoria è quel tipo di allenamento che ci aiuta a leggere il presente alla luce delle controverse radici che sono dietro di noi, senza mai ignorarne la complessità. In questo caso i racconti personali assumono un’importanza straordinaria, perché non solo ci informano sui fatti, ma ci permettono di sentire, di provare compassione e a volte anche di perdonare gli errori commessi da coloro che ci hanno preceduti. E io credo che il perdono sia fondamentale per andare avanti senza trascinare pesi morti e dolorosi: questo vale sia per quanto riguarda gli individui che le collettività.

Alla luce di tutto questo, credo che sia chiaro che la mia visione della memoria non sia né malinconica né romantica: non serve a nulla se rimane una mera celebrazione del sé, sia come individuo che come popolo, ma è preziosissima se usata come strumento per comprendere le basi del presente e come ispirazione per agire nel futuro in modo sano, consapevole e progettuale. Per me la memoria è quel tipo di conoscenza che tiene conto sia dei fatti che delle emozioni: nessuna azione umana può essere compresa o compiuta al di fuori di questi due parametri. Una buona biografia, però, li contiene sempre entrambi e perciò è spesso fonte di grande ispirazione.

La scrittura espressiva permette di raggiungere un maggiore consapevolezza di sé. Utilizzando la scrittura creativa come strumento di crescita ed espressione personale, la scrittura espressiva consente di lavorare sul delicato rapporto tra memoria e identità.

È anche vero che viviamo in un’epoca di amnesie collettive: quali sono le più grandi secondo te?

Sono molte e riguardano sia i popoli che gli individui. Elencarle sarebbe lungo e forse anche un po’ sterile, perché il punto in queste faccende non è mai il cosa, ma il come. Del resto, io penso che anche l’esercizio dell’oblio sia un diritto sacrosanto, soprattutto se è consapevole, e che sempre significhi qualcosa. Ad esempio, credo che una persona abbia il diritto di lasciare di sé le tracce che preferisce, purché siano autentiche: non si può raccontare tutto, perché è nella natura stessa del racconto dover scegliere su quali fatti puntare per costruire una storia – allora tanto vale scegliere bene gli elementi a cui dare luce. Ed è proprio in questo senso che non credo nella Verità assoluta, ma solo nella possibilità di tante piccole verità coerenti organizzate secondo un punto di vista specifico.

Il problema delle amnesie collettive e sistematiche è che cancellano le radici senza discernimento: in questo caso il passato non viene eliminato per lasciare spazio a un dato tipo di futuro o di visione della vita, ma per distrazione o noncuranza. Questo non può che dare adito alla costruzione di un futuro ignorante, volubile e caotico, a un presente senza senso e al disorientamento. E penso che questo sia un problema, sia per gli individui che per la società.

Ti sei detta critica nei confronti di determinati percorsi di scrittura autobiografica. Ci spieghi meglio il tuo punto di vista?

In parte l’ho già detto prima: la mia visione della memoria biografica, e dunque anche della scrittura biografica, non ha a che fare con una sterile commemorazione dell’Io o con una statica celebrazione del narcisismo che c’è in ognuno di noi. Io penso che la memoria biografica abbia senso se il suo esercizio conduce a un dialogo: tale dialogo può anche avvenire con se stessi, purché con la scrittura si intendano scoprire nuove parti di sé; o può essere impostato come una comunicazione tra generazioni, in un passaggio di quello che a me piace chiamare “patrimonio immateriale” e che tutti possediamo. A volte mi guardo intorno e vedo proposti percorsi biografici che di vero e proprio percorso non hanno nulla: “Raccontati che ti fa bene!”, sembrano dire. Ma, senza una guida che tenti di approfondire anche gli angoli che volutamente o inconsciamente abbiamo dimenticato, senza un progetto etico che lavori anche sul messaggio che vogliamo esprimere con la nostra narrazione, che altro bene rimane se non quello che solletica il nostro ego? Ecco, è nei confronti di questi percorsi di scrittura autobiografica che mi sento molto critica. Come in tutto, anche in questo caso credo che, se privato di una propria dimensione etica, anche un percorso biografico possa essere sterile. Quello che propongo io è molto diverso, ma non meno divertente.

Quale potrebbe essere la strada per fare della scrittura creativa, o della scrittura autobiografica, uno strumento di crescita per la persona?

Credo che innanzitutto sia necessario capire a chi si vuole raccontare la propria storia, ovvero individuare il destinatario del racconto. Narrare di sé per mettersi in relazione con qualcun altro ci impone di spiegare bene quello che abbiamo da dire – e io credo profondamente nella scelta delle parole come mezzo per capire meglio noi stessi – tenendo conto di dover comunicare quanto abbiamo scelto di dire a un punto di vista che è altro a noi. Se facciamo questo, è come se praticassimo uno stretching mentale, in cui continuiamo a uscire da noi stessi per arrivare all’altro e tornare ancora dentro di noi per scoprire cosa c’è di nuovo. Credo inoltre che la scrittura autobiografica debba spogliarsi di ogni vergogna, di ogni cliché e di qualsiasi tipo di paura: per crescere bisogna essere disposti a mettersi a nudo e talvolta scorticarsi un po’, anche se in modo controllato. Esistono tecniche che permettono di ottenere questo livello di accesso a se stessi, e non mi riferisco solo alla scrittura espressiva. Se poi si desidera condividere il proprio lavoro anche con altri, ma si prova pudore per quanto si ha scritto, si può pensare a un editing successivo. Ma, perché vi sia crescita, la scrittura in prima battuta deve essere un’espressione autentica di sé, senza filtri e senza giudizi, estetici o morali. Anche in questo caso è evidente quanto sia fondamentale l’accordo di riservatezza qualora io venga scelta come supporto in un percorso autobiografico: perché la scrittura sia anche cura, bisogna minimizzare tutte le interferenze che potrebbero influenzare il cammino in modo non autentico.

La scrittura terapeutica è tale se affrontata grazie a un solido approccio etico. Altrimenti è solo esaltazione dell'ego.

Secondo te ha senso parlare di scrittura terapeutica?

Io credo che ad avere un valore terapeutico siano innanzitutto la parola e il racconto. Il Lògos, ovvero la parola, ci induce a organizzare il discorso per poterlo comunicare; questo ordine, richiesto dal linguaggio per esistere, in realtà ci aiuta anche a comprendere i nostri pensieri. Spesso un concetto non ci è chiaro fino a quando non abbiamo trovato le parole per esprimerlo. Senza contare che la stessa enunciazione di un sentimento può essere un modo per sfogarsi e liberarsi di energie e di emozioni che, se taciute, ci farebbero male.

Rispetto alla parola orale, la scrittura presenta ulteriori caratteristiche che in certi casi possono risultare terapeutiche: ad esempio, se la parola detta è immediata, la parola scritta è più lenta, ovvero ci impone di trattenerci più a lungo con la riflessione che vogliamo esprimere. Questo ci dà la libertà di scegliere bene in che modo formulare quanto vogliamo dire e in alcuni casi di ottenere un controllo retrospettivo sul nostro vissuto: magari una data situazione l’abbiamo subita, ma almeno possiamo scegliere di raccontarla come vogliamo. Inoltre la narrazione scritta ci consente di conservare e relegare in un luogo fisico i nostri pensieri: su un quaderno, su un foglio o nell’hard disc del computer. La scrittura ci permette di mantenere e, se lo vogliamo, tramandare i nostri pensieri senza bisogno di essere lì a raccontarli. Questo da un lato ci autorizza a sentirci liberati da quanto abbiamo scritto, perché sappiamo di aver salvato i nostri pensieri su un supporto di memoria che li conserverà al posto nostro; dall’altro, ci dà la possibilità di comunicare le nostre riflessioni a qualcuno al di là della nostra presenza in quel luogo e in quel tempo. Io credo che entrambe queste caratteristiche abbiano un enorme potenziale calmante e dunque anche terapeutico.

scrittura autobiografica, scrittura creativa

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