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Digital advertising: cambio di scenario in vista?


Digital advertising

 

Oggi ho il piacere di ospitare Antonio Propato, Digital Media Consultant e riconosciuto specialista del Digital Advertising. Ho pensato di coinvolgerlo per dare finalmente forma scritta alle nostre numerose chiacchierate su temi come Native e Data driven advertising, Social media e Marketing digitale. Il risultato della trascrizione è un post bello lungo, che merita di essere letto con estrema attenzione. Ma ora, la parola ad Antonio.

Ciao Antonio, come prima cosa ti chiederei di presentarti ai lettori di SegnaleZero

Innanzitutto grazie per essere stato convocato sul tuo blog, un onore e un piacere. Quanto al sottoscritto diciamo che mi piace definirmi un professionista nativo digitale, nel senso che ho scoperto il Web negli anni universitari e da allora ho deciso che avrei voluto occuparmi professionalmente di Marketing e Comunicazione digitale, cosa che faccio ormai da 14 anni.

Ho iniziato prima come Sales account in una dot.com, occupandomi della vendita di soluzioni di visibilità e campagne pubblicitarie sui due portali gestiti. Era il 2003, un periodo in cui la febbre delle dot.com era bella che finita, pur tuttavia è stata un’esperienza molto formativa e fondamentale per il prosieguo della mia carriera.

In seguito ho iniziato un lungo percorso nelle concessionarie di pubblicità online: prima AdvIT, poi Tiscali Advertising, l’attuale Veesible, quindi Matrix e infine Banzai Advertising.

Negli anni posso dire di avere davvero visto e vissuto in prima persona tutto il percorso di sviluppo e maturazione del mercato del Digital advertising, e non ti nascondo che di fronte a tanti decisori marketing e comunicazione molto spesso ho fatto davvero da evangelist, mettendo a disposizione le mie competenze ma soprattutto la mia passione.
Pensa per esempio alle tante aziende della Food Valley emiliano-romagnola: oggi molte di queste hanno strategie di marketing digitale davvero eccellenti e investono nell’online anche quote significative dei budget previsti dal piano media. Ma ti garantisco che nel 2005 motivare a un responsabile marketing – che di Web molto spesso aveva pochissime cognizioni ed era abituato a pianificare campagne tv sulle grandi reti generaliste – il perchè di un investimento in una campagna display advertising era davvero una bella sfida.
Per non parlare del settore moda e fashion, dove fino a neanche troppo tempo fa parlare di campagne display era una mezza eresia.

Poi, quasi 5 anni fa ormai, ho deciso di concentrarmi sull’advertising digitale. Una scelta un po’ frutto della voglia di mettermi in gioco in una nuova veste professionale, un po’ data dalla consapevolezza che il mercato stava cambiando e con l’avvento del Programmatic e della disintermediazione il ruolo delle concessionarie era destinato a un ridimensionamento drastico. Cosa che puntualmente infatti è avvenuta.

Così oggi continuo a raccontare il perché oggi è ancora più importante, efficace e strategico utilizzare il digitale come strumento di comunicazione pubblicitaria grazie alle ultime evoluzioni della tecnologia.

Questo argomento è particolarmente complesso e articolato, ed è anche per questo motivo che negli ultimi anni sono nate diverse realtà che offrono corsi di Digital Strategy comprendenti pratiche, saperi e nozioni di advertising da utilizzare includendoli in una strategia di marketing digitale.

Se “Content is king” anche l’advertising ha il suo peso. Mi spiego: ok la qualità del contenuto e le relazioni che esso può costruire, ma non dimenticherei il ruolo delle strategie di supporto, Ads in primis. Cosa ci puoi dire a riguardo? A che punto siamo e come si sta orientando il mercato?

Se mi passi la battuta direi che con l’avvento del Native advertising oggi si può dire che “Content is the emperor”.

A mio avviso oggi il Content marketing ha fatto un salto di qualità notevole, perché adesso puoi pensare in modo organico e sinergico, sin dalla fase della progettazione, non solo il tipo di contenuti da produrre per ingaggiare il pubblico ma anche la tipologia di canali media su cui disseminarli e raggiungere le persone interessate.  E questo proprio perché l’advertising non è più il classico banner o formato display un tempo immediatamente riconoscibile come pubblicità, ma un contenuto che diventa organico e contestuale alla pagina che lo ospita.

Pensa ad esempio alla strategia di contenuto di un’azienda Food che ha previsto la produzione di un palinsesto di contenuti, ricette testuali oppure in formato video, utili a rafforzare e accrescere la community.

Se tu pianifichi una campagna con degli ads di tipo Native che ti propongono una selezione di queste ricette, magari focalizzando la delivery su siti e editori di cooking, l’utente medio rischia neanche di accorgersi di avere cliccato su una pubblicità. Niente di più facile che pensi di avere cliccato su un articolo suggerito, e se il contenuto proposto nella landing page sarà coerente con il titolo dell’annuncio la fruizione del contenuto da parte dello stesso sarà effettiva.
Questo ovviamente comporta il fatto che si debba pensare in modo creativo e strategico anche l’approccio alla campagna: per questo motivo viene meno la consequenzialità racchiusa nella formula “prima penso alla produzione di un contenuto efficace e poi al piano pubblicitario”.

Tra l’altro l’enorme vantaggio di questa opportunità è che non è più indispensabile dover avere un brand riconosciuto per attivare questo engagement. Anche un’azienda senza un nome importante che sappia produrre contenuti interessanti per il target che vuole raggiungere, e quindi disseminarli sui siti e canali giusti, può ottenere dei risultati davvero significativi in termini di accessi, ingaggio e fidelizzazione.
E, last but not least, senza dover per forza impiegare budget cospicui: le opportunità che oggi la Rete offre in termini di ottimizzazione degli investimenti e focalizzazione su obiettivi definiti di performance sono straordinarie.

Per completezza diciamo che quando parliamo di Content advertising non intendiamo solo di quello che tecnicamente è chiamato Native advertising, come gli annunci dei vari Ligatus, OutBrain, Taboola e simili. La pubblicità nativa deve essere coerente con il look and feel dell’ambiente in cui è ospitata. Se ci pensi bene in fondo il post sponsorizzato su Facebook non è nativo in quanto organico rispetto al Newsfeed? Non è un caso se Google ha cambiato il layout degli annunci AdWords per renderle sempre meno chiaramente distinguibili dai risultati organici. Mi pare evidente che per tanti motivi, strategici e tattici, il mercato stia sempre più spostandosi sul concetto di advertising meno intrusivo e più integrato con i contenuti non strettamente pubblicitari o il canale che li ospita. È un tema di relazione tra il contenuto e il contesto di ricezione ed esperienza.

Quindi c’è vita al di là di Facebook Ads?

Direi che alla luce di quanto sopra certo che sì. Troppe agenzie digital, a mio avviso, si limitano a pensare ai soli Facebook Ads e Google AdWords come canali pubblicitari, invece mai quanto adesso il mercato del Digital advertising è stato così ricco di soluzioni, opportunità e players che forniscono al mercato il giusto incentivo concorrenziale.

Poi non ci nascondiamo dietro un dito: sappiamo tutti che la potenza di Facebook in termini di risultati e performance, nonché in termini di ricchezza di dati a disposizione dei pianificatori, è enorme.

Ma attenzione perché Facebook presidia alcuni momenti della navigazione di un utente, più spesso legati allo svago e al social time, mentre l’attenzione che un navigatore avrà nella lettura di una pagina di un editore per esempio sarà sempre più elevata perché è un tempo dedicato all’approfondimento di un contenuto di interesse.

Potrei citarti tante campagne fatte per diverse tipologie di clienti in cui i tempi di durata della sessione di Facebook molto spesso risultano inferiori a quelli registrati dagli atterraggi da AdWords e dalle campagne Native. E poi non dimentichiamo che continua pur sempre ad esistere la cara vecchia Display Advertising. E’ vero che sempre di più gli utenti sono stufi di banner invasivi e fin troppo intrusivi, ma ti garantisco che oggi nell’epoca del Programmatic e dei Big data, oltre alle possibilità di accedere a dati di seconda e terza parte di qualità, se hai la possibilità di mettere a frutto i dati di prima parte, che sono quelli tuoi proprietari derivanti dalla navigazione del tuo sito, database e CRM, ti si aprono scenari straordinari in termini di performance di vendite o conversioni in lead e preventivi, piuttosto che di massima accuratezza nel raggiungere target estremamente mirati.

Fino a poco tempo fa il mondo del Programmatic e dei Big Data era pertinenza esclusiva di centri media e trading desk, adesso le aziende più Web Marketing oriented, specie quelle che hanno nel web un canale di vendita, hanno capito la necessità di dotarsi di DMP e tecnologie che permettono di impiegare i propri dati e di orientare gli investimenti pubblicitari verso il Data Driven Advertising. E lasciami dire che anche il Direct E-Mail Marketing, per quanto sia un mercato anche fin troppo maturo e intasato per alcuni segmenti e categorie di investitori, se impiegato con la giusta consapevolezza dei KPI da raggiungere continua ancora ad avere il suo perché.

Quindi, si, direi che in un digital media mix non puoi fare a meno di Facebook , ma c’è un intero universo che scoppia di vita al di fuori dei social media.

Leggo spessissimo dichiarazioni del tipo: “Il futuro è nel video”. È proprio così secondo te?

Sorrido, perché se lavorassi per un centro media ti direi assolutamente si. Anzi a dire il vero loro lo affermano a spron battuto da anni ormai. Per non parlare delle concessionarie, che hanno ormai nei formati video adv la cassaforte dei loro fatturati.

La questione può essere analizzata da diverse angolazioni, a mio avviso. Intanto partiamo dal fatto che le aziende italiane, specie quelle che si rivolgono al mass market, vengono da una concezione che era “TV centrica”: quindi con l’avvento dei Pre Roll e del video adv i centri media hanno avuto vita facile a rivendere il fatto che lo spot in tv doveva essere declinato anche sul web per ampliare la reach di segmenti di pubblico poco o difficilmente raggiungibili con la sola TV, il che in verità era un ragionamento ineccepibile.

Tra l’altro con l’affermazione e la sempre maggiore crescita delle piattaforme di video on demand l’acquisto in modalità Programmatic – o come è stata definita, addressable tv – non è più solo un’esclusiva di Internet ma ormai riguarda anche la TV, la stessa Mediaset si è già attrezzata per cominciare a vendere parte dei suoi slot pubblicitari in questa logica.

Il limite di questo approccio però è stato che molto spesso il Pre Roll è finito per diventare una brutta copia di uno spot tv, specie se la pianificazione del video viene effettuata a monte non su criteri di targetizzazione legati a interessi e behaviour, ma sparando nel mucchio per fare GRP.

Detto questo però, è altrettanto vero che da tempo ormai chi ragiona di Content Strategy si concentra moltissimo sulla produzione di contenuti video, perché sono molto apprezzati dagli utenti: pensa per esempio al successo delle videoricette o dei mille tutorial in formato video. Sarà per pigrizia, maggiore facilità di utilizzo e comprensione ma tutte le statistiche ci dicono che vedere un how to in un video per moltissime persona è decisamente più comodo e preferibile rispetto alla lettura di un testo.

In tal senso alcuni mercati si sono già orientati su delle pilloline brevi di durata massima da 30 secondi che possono essere veicolate come video adv su YouTube, Facebook e anche su un vasto e amplio parco di editori grazie alle piattaforme che consentono di erogare un video non più in formato Pre Roll ma in formato nativo.

Esemplare da questo punto di vista è quanto hanno già fatto alcune aziende food , adesso si è imposto, grazie anche e soprattuto ai social, questo format di videoricette facili e veloci che durano appunto 30 secondi , che hanno il plus di poter dare comunque un contenuto di interesse per il navigatore e al contempo associare questo contenuto al brand e ai relativi valori sottesi.

E posso testimoniarti che la reazione dei clienti, specie quelli che non hanno un vero e proprio brand, è stata di grandissimo interesse, hanno subito immediatamente capito la potenzialità di questa soluzione.

Intanto, si ripone molta fiducia nel Video Native Ads. Di che formati si tratta? Ma, soprattutto, il mercato fa bene a parlarne come del prossimo balzo in avanti della pubblicità?

E’ proprio quanto ti dicevo poco fa, facendoti l’esempio di strategie di video advertising focalizzate non tanto sulla produzione di uno spot, quanto di un video che può fungere in modo più nativo anche da spot.

Sul fronte del video si è riproposta quell’evoluzione – dalla Display al Native – di cui parlavamo prima. E con ancora più forza, perché, al netto di YouTube e Facebook, gli editori sul Pre Roll hanno un limite oggettivo: la disponibilità di contenuti video su cui erogare un Pre Roll, disponibilità che non è enorme perché produrre contenuti video di qualità, in grado di attirare l’attenzione degli utenti, è costoso.

Hai fatto caso a come ormai gli editori hanno preso il “vizio” di fornire in formati video notizie che del format video non hanno proprio nulla? E che molto spesso questi video sono fatti con slide di fotografie ed una voce a commento? Il motivo per cui preferiscono confezionare questi articoli tramite un video piuttosto che un contenuto testuale è proprio perché hanno bisogno di contenuti video su cui caricare in anteprima un Pre Roll.

E’ un espediente che nel breve periodo senz’altro paga, perché così monetizzano la grande richiesta di spazi Pre Roll che viene dai centri media, ma è una strategia lungimirante dal punto di vista della fruizione degli utenti ? Personalmente ho qualche dubbio.
Viceversa, penso che la fiducia nel formato e nelle piattaforme di Video Native sia molto ben riposta. Ho avuto modo di testarne un paio e devo dire che il salto qualitativo rispetto al classico Pre Roll è netto: in termini di diffusione del video, di targeting, di flessibilità nella scelta dei siti e delle testate su cui pianificare in chiaro piuttosto che in acquisto programmatico, di brand safety sulla tipologia di siti ed editori su cui la campagna è “deliverata” , di KPI raggiunti in termini di visualizzazioni e anche Clic rate, di ottimizzazione dell’investimento, perché il parametro di acquisto non è a Impression ma a Visualizzazione integrale del video.

Altro tema che mi interessa molto: il rapporto tra brand e internauti, ma soprattutto la progressiva automatizzazione del mercato del consenso. Penso a piattaforme come LovBy o Friendz: che ruolo giocano oggi nel mercato del marketing?

Tema decisamente caldo questo, ancora di più dopo i recenti interventi legislativi sulle varie modalità di che è chiamato Influencer Marketing. Tra l’altro, questa nuova modalità di ingaggio è talmente recente che ancora non c’è un nome univoco per identificarla, c’è chi parla di Action Marketing, focalizzando il fatto che gli utenti ingaggiati da queste piattaforme sono invitati ed incentivati a effettuare delle azioni, chi di Micro-influencer Marketing, forse a mio avviso correttamente, enfatizzando il fatto che questi utenti sono ingaggiati e chiamati ad effettuare un’azione e viralizzarla sui social, sfruttando il fatto di avere una più efficace capacità di influenza sulla cerchia dei propri amici e contatti sui social network.

In linea di principio l’opportunità mi pare interessante, perché il mercato degli Influencer inizia ad essere ormai un po’ saturo e perché va bene che il word of mouth è da sempre la migliore forma di pubblicità, ma non è così semplice monitorarne il ritorno e l’attribuzione dei KPI raggiunti. Qui invece si torna al tradizionale concetto dell’opinion leader, aggiornato e rivisto ovviamente all’epoca dei social.

C’è ancora da capire se questo fenomeno è destinato a sgonfiarsi oppure a consolidarsi e ritagliarsi un posizionamento definito e duraturo dentro le strategie di marketing digitale. Per la mia esperienza ti direi che, all’interno di un piano possono essere utili come attività complementari e a supporto di un piano più strutturato e articolato, perché hanno senz’altro il pregio di richiedere budget e cifre molto contenute e di ottimizzare l’investimento sull’azione obiettivo, che sia la condivisione di un post o la compilazione di un form.

Ma, soprattutto, se il consenso viene automatizzato, non si viene secondo te a perdere quel concetto di fiducia che è alla base della Rete così come l’abbiamo conosciuta finora?

Guarda, se parliamo di questo tipo di piattaforme in verità non vedo alcun rischio di consenso automatizzato, perché in fondo qui nessun utente viene forzato a compiere un’azione: in primis deve scegliere di iscriversi a queste piattaforme. E non sono così note, tanto che parliamo di un numero di iscritti non troppo significativo. In più, una volta iscritto, ha sempre la libertà di scegliere se e quale azione eventualmente effettuare.

E qui c’è il trade off tra il reward che ti viene offerto e il fatto che comunque ti viene chiesto di mettere la tua faccia con i tuoi amici sui social per diffondere contenuti che sono sponsorizzati.

Ma la vera novità qui rischia di essere un’altra: come certamente avrai letto, è notizia recentissima quella che Facebook sta testando in alcune nazioni l’eliminazione dal Newsfeed dei contenuti delle pagine, lasciandoci solo i contenuti condivisi spontaneamente dai profili personali con cui si è connessi e i post sponsorizzati.

In questa logica i contenuti pubblicate dalle pagine sarebbero posizionati in un altro feed ad hoc, un meccanismo analogo a quello che qualche anno fa fece Google su Gmail articolando la posta in 3 sezioni distinte e prevedendo una sezione autonoma e a parte per le mail pubblicitarie e le DEM.
Capisci immediatamente l’effetto immediato di una simile evoluzione: il traffico indotto dai social potrebbe subire un ridimensionamento drastico, per non dire verticale, costringendo i brand, e ancora di più gli editori, a pagare per poter pubblicare sul newsfeed e non essere rinchiusi in un feed secondario, che prevedibilmente potrebbe avere un’attenzione minima da parte degli utenti. Non so se questo resterà un esperimento o se sarà lo sbocco inevitabile di Facebook, questo lo scopriremo solo con il tempo. Però apre scenari tutti da scoprire: gli investitori potrebbero essere costretti a trovare persone che, in modo spontaneo, si dicano disponibili a divulgare presso la propria cerchia di amici, follower e contatti i Branded content.
Questo appena descritto potrebbe essere, tra le varie possibili conseguenze, uno scenario favorevole verso l’Action marketing e i presidio di Micro-influencer sui social media. Ma questa è solo un’ipotesi: vedremo alla luce dei fatti quale sarà il nuovo scenario che ci attende.   

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